Roma, 7 maggio ’09 (Fuoritutto) In una recente decisione la Corte di Cassazione ha escluso che un delitto commesso per gelosia sia aggravato dai futili motivi. Il movente della «gelosia morbosa», ha stabilito la Suprema Corte, è uno «stato passionale, causa frequente di delitti anche gravissimi», ma non può essere considerato «un'aggravante per futili e abbietti motivi», confermando la condanna a 14 anni per omicidio della Corte d'Assise d'Appello di Milano nei confronti di un immigrato che aveva ucciso la moglie.
Nel ricorso per cassazione, il procuratore generale di Milano aveva stato chiesto che si tenesse conto dell'aggravante, visto che l'uomo aveva più volte minacciato di morte la moglie «se solo l'avesse vista con altri uomini», perché la considerava una «cosa propria».
L'omicidio sarebbe stato, infatti, lo «sfogo di un desiderio anomalo di possesso in esito ad un lungo periodo di molestie», talché la pena in considerazione dei futili motivi ipotizzati meritava di essere aumentata.
La prima Sezione Penale della Cassazione, nella sentenza in parola (n. 18187 del 2009), ha ricordato, però, come questa aggravante sia configurabile solo nei casi in cui il delitto sia causato da uno «stimolo esterno così lieve, banale e sproporzionato, rispetto alla gravità del reato, da apparire per la generalità delle persone, assolutamente insufficiente a provocare l'azione delittuosa, tanto da poter considerarsi, più che una causa determinante l'evento, un pretesto per dare sfogo all'impulso criminale». Mentre, secondo i supremi giudici, non è così per la gelosia, atteso che tuttora, tale sentimento, anche per la «coscienza collettiva, non è tale da costituire una ragione inapprezzabile di pulsioni illecite».
Invero è stato meramente riaffermato un vecchio principio giurisprudenziale ormai consolidato, ma non è mancato il più vivo disappunto tra quei giudici assolutamente “democratici” che da alcuni decenni si propongono apertamente di moralizzare lo Stato in quanto casta di Sacerdoti del Dio Diritto e comunque di modificare concezioni e costumi di vita ritenuti ormai mero retaggio di un passato non più in grado di reggere il passo con i tempi.
Già in precedenza la Corte aveva escluso la sussistenza dell'aggravante dei motivi abietti nel caso di delitti commessi per ragioni di pura gelosia, ritenendo che, alla luce del comune sentire, in un momento storico in cui si attribuisce sempre maggiore rilevanza alla libertà di autodeterminazione, la sussistenza dell'aggravante dei motivi abietti deve ravvisarsi, non già nel caso in cui un delitto sia compiuto per ragioni di gelosia collegate ad un sia pur abnorme desiderio di vita in comune, ma allorquando sia espressione di spirito punitivo nei confronti della vittima considerata come propria appartenenza, della quale pertanto non può tollerarsi l'insubordinazione.
Occorrerà tuttavia aspettare ancora del tempo perché tale orientamento con il quale appare definitivamente superato ogni tentativo da parte dei giudici di merito di riconoscere al movente della gelosia, non già un disvalore, ma addirittura un apprezzamento; ancora negli anni ’90 si disquisiva se i motivi di gelosia giustificassero la concessione di un’attenuante, quella dei motivi di particolare valore morale e sociale, in considerazione della rilevanza giuridica che in passato veniva accordata alla gelosia quale corollario di quella causa d’onore che fino al 1981 aveva sostanzialmente lasciato impunita la quasi totalità di quei delitti perpetrati per un malinteso senso dell'orgoglio maschile colpito dall'infedeltà coniugale: fatti che oggi costituiscono sempre passioni morali riprovevoli, mai suscettibili di valutazione etica positiva.
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